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HOMENewsDIALOGO CON MARIO BALSAMO, REGISTA DEL FILM “MIA MADRE FA L’ATTRICE”

DIALOGO CON MARIO BALSAMO, REGISTA DEL FILM “MIA MADRE FA L’ATTRICE”

31 agosto 2016
Due persone con un rapporto conflittuale ma molto più simili di quanto credano di essere, con un legame che va oltre a quello biologico perché a legarle è anche la passione per il cinema che ha tracciato il percorso delle loro vite. Una madre e un figlio – lei attrice, lui regista - che si riscoprono, che si provocano, che insieme divertono e sanno emozionare profondamente.
Auser ha patrocinato volentieri il progetto legato al film “Mia madre fa l’attrice” perché i contenuti del film rispecchiano pienamente i valori promossi dall’associazione; la proiezione a Milano della pellicola ha creato l’occasione per un dialogo con Mario Balsamo, che ha diretto e co-interpretato il lungometraggio esaltando tanto il dono dell’ironia quanto l’occhio allenato del documentarista. 
La storia raccontata è vera, così come l’espediente narrativo del film interpretato da sua madre sessant’anni fa e da lei mai visto; come ha reagito sua madre nel rivedersi giovane nel ritrovato “La barriera della legge” del 1954 e poi nel valutare il proprio ritorno sul grande schermo da donna matura?
Come attrice è molto più brava adesso che da giovane, a sessant’anni di distanza si è impratichita nella quotidianità… Nella scena di “Mia madre fa l’attrice” in cui lei assiste finalmente alla visione del film con Rossano Brazzi ammetto di aver registrato le sue reazioni a sua insaputa: era l’unico modo per avere una battuta spontanea alla domanda su cosa pensasse di “La barriera della legge” e l’aspetto divertente è che lei al mio sollecito ha mostrato un’enorme perplessità, sentenziando “Hanno fatto bene a toglierlo dopo tre turni!”. Il mio film durerà di più. Pensate alla coincidenza: la prima di “La barriera della legge” e di “Mia madre fa l’attrice” sono state nello stesso cinema di Roma, il Fiamma.

Con la differenza che, stavolta, sua madre ha potuto godersi l’emozione della prima…
Sì, era molto commossa; come tutte le primedonne, sentiva che la sala era affascinata dalla proiezione. C’erano 650 persone che ridevano e si commuovevano nei momenti giusti, lei ha sentito che c’era consonanza e che era riuscita a creare l’empatia. 

È innegabile anche la sintonia di attitudini e passione con sua madre, grazie al cinema. Potersi raccontare attraverso la macchina da presa, recitando con sua madre e dunque uscendo allo scoperto in questa rappresentazione del vostro rapporto, è stato sicuramente un privilegio e un bene per voi… 
Il nostro rapporto è molto conflittuale perché siamo molto simili, irascibili, umorali. Lei, come esempio cinematografico massimo, si è alimentata della conflittualità: il conflitto drammaturgico per lei era indispensabile. Ha sempre avuto bisogno di un antieroe. Dopo questo film ho maggiore consapevolezza di quanto fossimo simili, era come litigare con me stesso. Ciò che negli anni rimproveravo a lei lo devo rimproverare a me. Molte parole non sono state dette, sia di affetto, sia di precisazione su posizioni diverse. Mi chiudevo in un mutismo che non facilitava il progredire del rapporto, ma anzi lo chiudeva. Questa sospensione è stata superata dal fatto che per me, cinematografaro incallito, un film è un atto d’amore e di rivalsa: il figlio che ha subìto delle cose, qui essendo regista ha il potere e gliele fa un po’ scontare…Ad esempio, nelle riprese – lei aveva 85 anni e ora ne ha 87 - le ho fatto ripetere più volte una scalinata e lo facevo con la troupe che mi minacciava… ma io conosco molto bene mia madre e so che di fronte alla sfida si riattiva, come me. Girando il film è tornata ad avere una verve fortissima, come da giovane.

Sua madre ha partecipato alla stesura della sceneggiatura?
No, non ama le sceneggiature e da quando l’ho capito siamo andati sempre a braccio, immaginando la sua reazione di fronte a miei stimoli. Eppure la reazione non era scontata, ogni volta era un colpo di teatro. È stata una ricchezza creativa, il film l’ho firmato col mio nome e con il suo non a caso.

Auser ha dato il patrocinio al progetto di “Mia madre fa l’attrice”: può descrivere in che chiave ha deciso di comunicare il fattore anzianità nel film?
Anche qui è stata mostrata un’ambivalenza, dovuta anzitutto a un elemento molto peculiare: mia madre è una donna che ha fatto l’attrice e che è stata ed è molto bella. L’altro capo dell’ambivalenza è positivo, è fare conti con il proprio percorso di vita, specialmente se si è mantenuto un tratto gentile di lineamenti, un’energia vivace e un carattere forte. L’accettazione della propria vita adesso, nella nostra società, è un elemento difficile perché l’anziano non è più stimato come custode dell’esperienza e della conoscenza ma è considerato quasi un peso. Le persone anziane invece possono offrire tantissimo, anche per quanto riguarda le possibilità di esprimersi e ricongiungere ciascuno alla propria storia. Il mio film non è buonista, si capisce che tra me e mia madre c’è un rapporto a volte aspro ma c’è sempre la consapevolezza che ci si confronta con una persona che è una risorsa. 

Auser, oltre al volontariato alla persona attraverso la telefonia sociale del Filo d’Argento, sta puntando sempre più sulla cultura: cosa pensa di questa scelta?
È una strategia vincente, permette all’anziano di misurarsi non solo con qualcosa di attivo e importante ma di comprendere anche alcune storture della società. L’anziano non è un plus valore solo per le aziende farmaceutiche, ha interessi e passioni che non sviliscono con l’avanzare dell’età.
Il senso di una vita è percorrere la propria età nel modo più giusto e la cultura, a qualsiasi età, permette all’essere umano di far pace con se stesso, anche con gli aspetti d’ombra. Lo fa vivere psicologicamente in un modo molto attivo, sfidandolo. Con Enzo Costa, presidente di Auser Nazionale, abbiamo ragionato sulla solitudine: nella terza età ci si sente inutili e abbandonati non avendo ruoli definiti, se non magari curare i nipotini laddove ci siano. Confrontandosi con persone della stessa età al cinema, al centro socioculturale, all’università della terza età, si riesce a dare un senso molto forte al vivere la vecchiaia in modo rassicurante. 

È un aspetto importante, quello che ha citato: il luogo di ritrovo si trasforma in relazioni.
La relazione è un’esperienza fondamentale. Spingo mia madre, che vive sola con una badante in un’altra città, a frequentare associazioni come Auser che creano occasioni di condivisione, fanno subito risentire vivi. Io vado a trovare mia madre più spesso che posso, ma ripeto che è giusto favorire le relazioni tra pari. Meglio ancora se la condivisione ha un obiettivo, come studiare qualcosa: nel film mia madre si lamenta del fatto che gli anziani si incontrano al bar non per divertirsi ma per scivolare nella conta dei vivi e dei morti e nell’elenco delle malattie, mentre invece di deprimersi bisogna porsi ogni giorno piccole sfide: ad esempio studiare un libro e raccontarlo ad altri, utilizzare gli audiolibri se si ha difficoltà alla vista… Non ritengo ci siano piccoli o grandi obiettivi, ci sono obiettivi e basta.

Il cinema può aiutare l’invecchiamento attivo? 
Andare al cinema è bellissimo ma genera anche una riflessione più ampia. Nelle grandi città il pubblico è molto anziano: è qualcosa di affascinante vedere anziani che riescono a raccogliersi nella magia di una sala cinematografica, che per me è un autentico tempio della cultura. È una forma di condivisione di emozioni più profonda, perché il film poi viene discusso e commentato e non rimane un’esperienza individuale come avviene spesso per i più giovani, che si parlano attraverso i social e non guardando negli occhi qualcuno. 

Lei è un maestro nell’arte dell’usare l’ironia al posto giusto e al momento giusto, si è visto anche quando ha affrontato la tematica della sua malattia in “Noi non siamo come James Bond” , film che ha vinto il Premio speciale della giuria al 30° Torino Film Festival. Nei cinema ora “Mia madre fa l’attrice” sta raccogliendo grande consenso, a Milano come nelle altre città, forse proprio grazie a questo sguardo divertito anche nel toccare aspetti scomodi o molto personali…
Certe barriere vanno scavalcate con ironia e non con recriminazioni. L’ironia salva la vita, me lo dicono tutti e anche io sono convinto che per me sia stata la medicina più potente: contestualizza le cose in un modo diverso, disincantato ma non cinico. Sorridere è salute, sempre, a qualsiasi età.